Combattere il "Tu ci chiudi, tu ci paghi" per un welfare alla portata di tutti nell’era del Covid-19

Non serve ricorrere all’analisi marxista per sapere che le scelte politiche di qualunque governo sono il risultato dei rapporti di forza reali presenti nella società. Una buona proposta politica non dovrebbe mai esulare da un’analisi di questo tipo, onde rimanere ancorata saldamente alla realtà. E’ mio parere che una delle componenti che ha determinato la disaffezione di ampie fasce di popolazione dalla politica attiva, concausa della tragedia che stiamo vivendo, sia stata proprio la politica del “pensiero magico” che pretende di far calzare una visione specifica sulla nostra realtà fattuale. 

Machiavelli ci insegna invece che la politica è l’arte del possibile, e per quanto sia nostro compito di avanguardie offrire la nostra visione della società ad un mondo che non è più neppure capace di immaginare un’alternativa al decadentismo borghese che stiamo vivendo, non possiamo esimerci da proporre misure concrete contro i problemi dirimenti, senza perderci in desideri irrealizzabili e utopistiche soluzioni. E quando critichiamo un governo o una giunta comunale, la critica dovrebbe sempre essere commisurata alla presenza e alla realizzabilità concreta di un progetto alternativo.

In questo senso, invece di concentrarci esclusivamente sugli errori del governo Conte, che pure sono stati molti, o dibattere sulle singole misure adottate e sui relativi strumenti (i vituperati DPCM), bisognerebbe ricordare che la situazione nella quale siamo non è la conseguenza delle scelte e dei ritardi contingenti, per lo più inevitabili nelle condizioni date, ma del primato incontrastato e di lunga durata degli interessi del capitale, che ha prodotto tali condizioni perché si è appropriato delle risorse del welfare nel corso di lunghi decenni, riducendo la rete di protezione sociale del paese in uno stato di grave arretratezza strutturale. Vale anche la pena sottolineare come quasi tutto l’occidente si sia mosso come un sol uomo in tal senso, e che neppure la nostra esperienza diretta maturata durante la prima ondata pandemica, non sia stata di grosso insegnamento a nessuno in tal senso. Ancora in questi giorni, con gli ospedali al collasso e trecento morti al dì, sperimentiamo la ferocia con cui i rappresentanti locali degli interessi capitalisti bloccano i provvedimenti urgenti in nome di una società dove chi non può più produrre è considerato “non indispensabile” e quindi sacrificabile.

La verità è che scelte diverse dalle attuali, nelle medesime condizioni non avrebbero modificato molto la sostanza delle cose. Governi diversi non avrebbero potuto fare meglio, e avrebbero verosimilmente fatto peggio, specie viste le prese di posizione delle varie opposizioni sul lavoro a tutti i costi, sulle aperture selvagge e sui ripetuti inviti alla disobbedienza alle più elementari norme igienico-sanitarie, in nome della lotta ad una dittatura sanitaria che con tutta evidenza non sussiste.

Una chiusura generalizzata è oggi indispensabile, e cominciano a richiederla anche alcuni rappresentanti di categoria. Abbiamo molteplici esempi nel mondo economico, anche a casa nostra, di come una chiusura netta consenta di riprendere velocemente il controllo dell’epidemia e permetta una ripresa più efficace all’apertura (i dati italiani del terzo trimestre 2020 sono fenomenali in tal senso), ma perché si è dovuti arrivare al lockdown, o a qualcosa di molto simile?

Mancano medici e infrastrutture sanitarie, mancano trasporti adeguati, mancano risorse per un reddito di quarantena. Ma perché mancano? Mancano da ieri o da più tempo? Come e soprattutto dove potevano e possono essere trovate le risorse per intervenire, al netto del provvidenziale sostegno contingente della BCE? A chi far pagare il costo della crisi quando l’emergenza sarà finita? Come usare politicamente la lezione della crisi Covid-19 per orchestrare una transizione sociale ed ecologica della nostra società?

Questi, e non altri, sono gli interrogativi che un soggetto politico nel nostro campo che voglia dare un segnale di discontinuità con il passato dovrebbe proporre all’elettorato, anche a costo di parlare a molti ma non a tutti, in una società ormai egemonizzata dalle destre più cialtronesche e demagogiche che si siano mai viste.

La protesta diventa un concreto elemento di rottura solo se è la protesta delle vittime della crisi, che sono diverse tra loro, e solo se si rivolge alle sue cause strutturali.

Non lo è invece, e si configura come una protesta reazionaria e funzionale al sistema vigente, se viene diretta dai boiardi e dai loro lacchè, ovvero da coloro che per anni ci hanno proposto privatizzazioni e liberalizzazioni come la panacea di ogni male, appropriandosi delle funzioni e dei beni pubblici che ora ci sarebbero indispensabili, o se è rivolta a cercare presunti colpevoli di comodo verso cui indirizzare la rabbia popolare (gli immigrati di qualunque provenienza sono stati anche durante l’emergenza Covid un facile bersaglio), per nascondere le vere responsabilità della nostra classe dirigente.

Per questi motivi, è essenziale non seguire i rigurgiti reazionari e inseguire la destra sul facile slogan demagogico "tu ci chiudi tu ci paghi", ma occorre essere più lucidi e specifici con qualcosa tipo: "Chi ha distrutto lo stato sociale, approfittandosi delle privatizzazioni, dello sfruttamento del lavoro con salari da fame, chi ha tolto risorse allo stato evadendo le tasse deve pagare il conto ed essere persino espropriato o comunque colpito a fondo nel patrimonio".

La ricchezza di questo paese è ancora di tutto rilievo e può aiutarci a fronteggiare questa crisi. Ma questa ricchezza è stata privatizzata, socializzando invece oneri e perdite, e va fatta riemergere a tutti i costi.

Sarebbe realisticamente possibile farlo oggi? Assolutamente no, visti i rapporti di forza attuali. Chiunque ci provasse verrebbe politicamente massacrato il giorno dopo. È possibile però porre il problema e iniziare un percorso politico su queste basi.

Si tratta di un punto decisivo, che va anche al di là della questione della pandemia in corso e persino oltre l'impoverimento di larghe fasce sociali. Questo perché un welfare universale (per tutti senza distinzione di classe, provenienza, nazionalità) è quel che rende moderna e fattiva la democrazia. Qualunque distinguo si introduca per la fruizione dei propri diritti sociali e politici è un attentato alla democrazia moderna stessa. E' il sintomo del passaggio a una forma di democrazia diversa e minore, che è persino compatibile con le forme moderne di schiavitù. Ogni privatizzazione del welfare vista in questi ultimi decenni va esattamente in questa direzione, come pure la trasformazione del lavoro da un diritto fondamentale per la dignità umana ad una merce come un’altra, su cui contrattare sempre al ribasso. Ha la sua parte la demolizione dell’istruzione pubblica che ha reso il sapere sempre più elitario e costoso, e l’analfabetismo di ritorno della rete, che unito alla sfiducia crescente nelle istituzioni, sta alimentando un pericolosissimo livore antiscientifico generalizzato.

La diffusione del Covid, d’altra parte, ha solo accelerato alcuni processi già in atto nel mondo moderno come il ricorso massivo al lavoro in remoto, che hanno un impatto da non sottovalutare sulla società e sul mondo del lavoro di oggi. Meno spostamenti per lavoro implicano certamente meno emissioni inquinanti, che è esattamente quel che ci serve, ma comportano anche un crollo del PIL e dunque del lavoro nel settore di viaggi, carburanti, e nell’economia indotta, di cui mense aziendali e piccola ristorazione sono solo un esempio. Le misure di distanziamento sociale hanno fatto il resto, nel restringere la nostra vita sociale ad ambiti più domestici, aumentando le distanze tra le persone e diminuendo le occasioni sociali. Palestre e centri culturali e di benessere sono altre vittime illustri, che possiamo solo illuderci di sostituire con i servizi offerti dalla rete senza avere ricadute economiche ma anche psicologiche sul malessere della popolazione. Un popolo disperato che non capisce le più elementari richieste di prudenza e disciplina nel suo stesso interesse e le addita a “dittatura sanitaria”, è un popolo che per definizione non potrà essere coinvolto in alcun progetto politico progressista. Processi come questi non possono essere vissuti passivamente. Essi comporteranno una trasformazione nel tessuto produttivo e nei servizi delle nostre città, trasformazione che va governata e non subita, per evitare che i settori colpiti cadano vittime dell’indigenza, mentre la disperazione prende il sopravvento nelle rispettive categorie sociali.
Va riportata invece la calma e la fiducia nelle istituzioni e nella scienza, anzitutto con un’opera di trasparenza, moderazione dei toni e corretta informazione ben coordinata, che metta ordine nel marasma delle voci di un jet-set malato di protagonismo sulla pelle altrui e aiuti la ricomposizione di una qualche coesione sociale.

Questo tema è ad oggi fuori da ogni dibattito a causa della frammentazione e confusione che regnano nelle classi subalterne, coadiuvate dall’inesistenza di una qualsiasi proposta politica organizzata per combattere su questo campo. La sua mancanza rende ogni volta più problematico l'emergere delle insorgenze sociali, e facile la loro strumentalizzazione dalle forze più reazionarie.

E’ importante quindi riavvicinarsi al popolo e alle sue legittime istanze, chiarendo subito che in piazza non si va a supportare fascisti, borghesi e padroncini di ogni risma. Si va a denunciare tutto questo, ma anche le responsabilità di chi dalle suddette piazze, a sinistra, si tiene ben lontano.

È un problema fondamentale di egemonia perduta da riconquistare, passando necessariamente attraverso una profonda autocritica di tutto il nostro campo.

Non ha alcun senso accostarsi al proletariato in rivolta privi di alcun progetto credibile, così come non ha senso rifiutare di mischiarsi a movimenti reazionari se prima non ci si è interrogati sul perché oggi esistano quasi solo quelli. Altrimenti, finiremo come sempre con l’inseguire sul loro terreno i nostri rivali politici oggi egemoni, rimanendo del tutto funzionali allo status quo. Meglio a questo punto la semplice testimonianza.

Per concludere, cosa andrebbe fatto? Occorre parlare prima possibile con chiunque voglia costruire un fronte autonomo dal PD, che è stato capace di regalare praterie alla destra anche nelle regioni più progressiste. E’ indispensabile partire con l’analisi dall'emergenza pandemia e dal suo impatto di classe, facendo capire che questo impatto così disuguale è anzitutto conseguenza di decenni di privatizzazioni e della prevalenza delle logiche di mercato su quelle sociali, aumentando a dismisura il divario fra primi e ultimi. E’ corretto puntare su un programma di svolta ecologica della nostra società, ma solo se accostato ad un piano in cui il lavoro e il welfare abbiano una loro rinnovata centralità. Detto che un capitalismo “ecologista” è ovviamente meglio di uno inquinatore, se la “transizione ecologica” sarà pagata dalla fiscalità generale, ovvero tramite una partita di giro fra salariati oppressi, la partita è già persa. Occorre però far capire ai precari e alle partite iva messi in ginocchio dalla crisi che i loro alleati naturali nella lotta politica non sono borghesi piccoli e grandi e “padroni illuminati” in cerca di autopromozione, bensì lavoratori dipendenti pubblici e privati e pensionati, ora strategicamente presentati dal potere costituito come i nuovi privilegiati da spolpare alla bisogna non appena cesserà l’emergenza Covid e il sostegno della BCE. L’obiettivo della lotta deve quindi essere lavoro e welfare, non l’emancipazione dalle tasse che tanto fa comodo anzitutto ai detentori del capitale.

Senza questo passaggio, avremo un ribellismo popolare sempre più diffuso ma capeggiato da industriali e piccoli borghesi, alimentato da media e social network e da un'opposizione irresponsabile e banditesca.

In questo scenario, un governo debole, diviso e scarsamente dotato sarà costretto a procrastinare un lockdown generalizzato e coordinato su scala europea che appare ormai sempre più necessario, come Francia e Germania hanno compreso. Se adottato immediatamente, esso potrebbe infatti alleggerire la situazione facendoci riprendere il controllo dell’epidemia e ripristinando l’indispensabile tracciamento dei contagi, forse anche salvaguardando le lezioni in parziale presenza nella scuola e nelle università.

L'ennesimo sacrificio dei lavoratori dipendenti, che si accingono a sostenere fiscalmente le indispensabili chiusure di chi spesso si sottrae al suo dovere fiscale, rischia di essere ancora una volta inutile e foriero di ulteriore improduttivo livore sociale.

Si ringrazia il prof. Stefano G.Azzarà per il prezioso contributo e la continua ispirazione.

Mattia Corsini